A prima vista, scindendo e interpretando le due parole che compongono l’endiadi, saremmo portati ad interpretare questo ennesimo neologismo come “l’automazione dell’ufficio”, un tema trito e ritrito, forse abusato, che è da anni al centro del dibattito acceso all’interno della comunità dei Commercialisti.

Tuttavia, nell’intenzione di chi scrive, questo buffo termine è insieme una sintesi e una denuncia: la sintesi che lega indissolubilmente l’ossimoro del problema (la burocrazia) e della soluzione (l’informatica), e la denuncia del livello di perversione cui è giunto l’Italia, un Paese in cui il cancro dell’inefficienza e della lungaggine sta volutamente metastatizzando la capacità reattiva e le difese immunitarie di cui esso stesso dispone, sincretizzate appunto nell’informatica, utensile dell’automazione, a sua volta  strumento della capacità di risoluzione dei problemi.

E’ veramente difficile farci caso, specialmente se, come il commercialista, si vedono le cose da dentro anziché da fuori; se “il” commercialista (ma sarebbe giusto lo facessero le organizzazioni in cui esso si identifica) si fermasse a riflettere, probabilmente nascerebbe spontanea una domanda: “ma come è possibile che, rispetto al passato, in cui tutto si faceva a mano, oggi, disponendo di tanti strumenti da far somigliare il mio studio ad una centrale elettronica, non ce la faccio più a finire il mio lavoro?”

La risposta potrebbe venire altrettanto spontaneamente: “Sono enormemente aumentati gli adempimenti!”, ma non sarebbe giusta, sia perché quest’aumento, pur essendo concreto, non è esponenziale, ma soprattutto perché in realtà il profluvio di norme, quasi come una piaga biblica, trova la sua genesi nella burocrazia e la sua apocalisse nella stessa improduttiva pedanteria delle consuetudini, delle forme e delle gerarchie.

La verità è che quando si promulga una legge, un regolamento, una normativa, una direttiva, sarebbe indispensabile, e, aggiungo, facile, mettersi nei panni di chi deve applicarla e verificare quali siano le difficoltà che costui potrebbe incontrare, quali sono le interrelazioni con la fiumana di codici e codicilli che precedono l’introduzione di una modifica normativa e fornire gli strumenti per gestirla. Non si pensi ai software gestionali, scritti da apposite aziende che si preoccupano di aggiornarli con le novità via via introdotte: il problema consiste nelle interrelazioni con l’universo delle istituzioni, faticose, farraginose, caotiche, a volte incoerenti, frutto di una fecondità legislativa senza pari sia nel mondo moderno che in quello antico, basato, quest’ultimo, su codici lineari e, si potrebbe dire, su una sorta di “common law” ante litteram. Se pensiamo che in Italia vigono ben 150.000 (diconsi centocinquantamila) leggi, mentre le nostre ex provincie dell’Aquitania e del Narbonense reggono il proprio ordinamento su “sole” 5.000 norme, ci rendiamo conto del ginepraio in cui cittadini e operatori italiani sono costretti ad esperire le relative attività. Mi viene spontaneo citare Tacito, che nel libro 3° degli Annales, parla di “corruptissima res publica, plurimae leges”.

Ecco che si dispiega in tutto il suo potere allucinogeno il paradosso “più informatica, più lavoro”: un vero e proprio ossimoro, che tuttavia affligge alcune (forse tutte) categorie professionali; solo che alcune lo benedicono, mentre altre ne patiscono gli effetti insalubri. Se a ciò si aggiunge, poi, la (naturale?) ritrosia dei singoli ad introdurre nei propri studi innovazione, che, ricordiamolo, è un sinonimo di distruzione, ecco che abbiamo la foto della situazione faticosa, fangosa, in cui si muove la categoria (Lucilio direbbe “fluit lutulentum”), ancora legata ad una “prima nota” che evoca i “mezzemaniche”, i cosiddetti “travet”, figli giusti e naturali di un’epoca in cui i calcoli si facevano ancora incolonnando i numeri uno sotto l’altro.

Ma questa è un’altra storia, di cui potremo parlare in seguito, quando, magari, lanceremo in piccionaia il termine “gianoteconologie”.