Le contestazioni provenienti dagli Uffici fiscali ed aventi per oggetto gli elementi passivi che concorrono a determinare l’imposta dovuta (ciò sia ai fini Iva, in relazione al regime di detrazione dell’imposta pagata ai fornitori, sia ai fini delle imposte dirette, in ragione della deduzione dei costi per la determinazione dei redditi di impresa o di lavoro autonomo) assumono un ruolo, senza ombra di dubbio, di primaria rilevanza per quanto concerne l’accertamento tributario.
La domanda principale che si pone, a tal proposito, è: come si ripartiscono oneri e doveri rispetto all’accertamento di una evasione che si realizza nelle voci passive del reddito?
Secondo un orientamento giurisprudenziale tradizionale, i fatti la cui sussistenza concorre a ridurre il carico imponibile dovrebbero essere provati dal contribuente. Ciò sia che si tratti di deduzioni dall’imponibile o, piuttosto, di detrazione dall’imposta. Volendo procedere ad un’interpretazione di carattere rigorosamente letterale, dunque, la prova degli elementi passivi incombe sul contribuente. Situazione, a ben vedere, che potrebbe provocare un eccesso: se il fatto non risulta positivamente provato, il soggetto è pregiudicato per quanto riguarda sia l’eventuale detrazione o deduzione che, quindi, non potrebbe essere riconosciuta. E’ bene sottolineare che l’onere della prova è relativo solo ai fatti che hanno bisogno di essere provati. Volendo semplificare, nel momento in cui avviene la contestazione dell’Ufficio delle operazioni passive, o il contribuente prova l’effettiva sussistenza o la reale portata di esse o, in caso contrario, le deduzioni e detrazioni non sono riconosciute. Il problema che ne consegue, tuttavia, è di ordine meramente pratico. Le operazioni passive, nella realtà, sono svariate e se, dunque, bastasse solo la mera contestazione generica da parte dell’Ufficio, il contribuente sarebbe gravato da un onere di prova molto complesso e sostanzialmente impossibile da adempiere dato che dovrebbe provare l’effettività dell’operazione se solo contestata dall’autorità.
La giurisprudenza, al momento in cui si scrive, sembra muoversi sulla base di premesse comuni. Innanzitutto, la detrazione/deduzione spetta se sono assolti dal contribuente gli obblighi formali di documentazione e registrazione. In secondo luogo, per non riconoscere la detrazione/deduzione, non è sufficiente che l’Ufficio affermi di non credere alla relativa documentazione. Infine, anche se l’Ufficio porta elementi a sostegno della sua affermazione sulla non corrispondenza delle fatture ad operazioni effettive, il contribuente può fornire ulteriori prove contrarie.
Sulla base di quanto specificato in precedenza, la giurisprudenza di legalità ha evidenziato alcuni principi. Il primo di questi (determinato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 18710/2005) è che “la fattura è documento idoneo a documentare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente dall’articolo 21 del d.p.r. n. 633/72, in materia di Iva, che ne disciplina il contenuto, prescrivendo tra l’altro l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale; pertanto, nell’ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che deduce la falsità del documento e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere”. Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5406/2012, ha affermato che “… qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamente (in tutto o in parte) inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata posta in essere… incombe sull’Amministrazione Finanziaria che adduca la falsità del documento e può essere adempiuto anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti… pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente …”. La Corte di Cassazione, per concludere, con la sentenza n. 1110/2013 ha affermato che “…qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamente inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata posta in essere incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggiore imponibile). In sostanza … non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi, l’esistenza di un maggiore imponibile provare che l’operazione commerciale, documentata dalla fattura, in realtà non è stata mai posta in essere“.
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